1° ottobre, Teatro Olimpico di Vicenza: la prima assoluta GO.GO.GO. del regista cinematografico russo Aleksandr Sokurov. Non a caso sono rinciampato nella struttura narrativa non lineare. Dopo l’anteprima di Cave è stata la volta della prima assoluta di Sukorov. Ma, forse è il dharma del momento che mi vuole direzionare sul modo in cui devo cominciare vedere le cose. Nulla succede per caso, lo stesso mi è successo con la musica modale. Devo ammettere che qualsiasi manifestazione si sviluppi all’interno del fantastico teatro olimpico diventa di secondo ordine, o meglio l’attenzione sarà sempre riservata in primis alla scenografia palladiana. La fusion tra il nuovo teatro ‘animato’ e il classico ‘inanimato’ porterà sempre ad un risultato super contemporaneo… Inevitabile! Ahimè per lo spettacolo, l’inanimato inorganico palladiano di pietra e marmo vinceva spesso sulla vita in progress degli artisti: un duello difficile quello dei due protagonisti contro l’ambiente troppo classico e ufficiale per parlare di cinema assassino. Ho notato che nel nuovo teatro – come nelle arti figurative – c’è quasi sempre un rigetto che si manifesta tramite la rielaborazione di elementi stilistici dei secoli precedenti quali il simbolismo, la recitazione in versi, il richiamo ad una funzione morale o romantica. Anche per GO.GO.GO. avviene così, attraverso una deframmentazione del vecchio teatro di prosa drammaturgico tipico tediando volutamente lo spettatore con un continuo taglia incolla e collegamenti improvvisi, fulminei. Tanta velocità dei testi rinvigorita dalla centralità delle due figure dei due attori e della loro fisicità. Ha vinto il gesto dei due protagonisti ‘topi’, nell’azione fisica e nella loro emozione interpretativa, ma per gli altri?! ma?! Sono un po’ dubbioso sulla release sovietica della coppia Fellini/Magnani, ma per uno straniero in Italia capisco e giustifico l’effetto ‘dolce vita spaghetti mandolino’. Ritornando al progetto, ho molto valutato la figura del topo , come unico animale in grado di mangiare la cultura, mi correggo il libro con la sua cellulosa sporcata dai versi passatitisti (direbbe Marinetti); il formaggio come esca per catturare l’attenzione degli spettatori ingenui, in realtà comparse indigene per far odorare lo spettacolo di folcloristico. Il concetto di Piazza Italia mi ha un po’ confuso inizialmente, dall’inizio, da subito all’entrata in gradinata con Alessia, ma poi ho sorriso all’inizio dello spettacolo con l’ingresso del regista felliniano inseguito dalle fans anni ’40. Ho apprezzato la ricostruzione dei ciottoli del palcoscenico, dello specchio d’acqua finta e dello schermo lcd per terra che rappresentava la pozzanghera dove si rifletteva lo schermo del cinema. Il successo della serata e l’applauso incerto nel finale è stato proporzionale alla dimensione artistica e all’affermazione della figura del regista Sokurov nel mondo del cinema e ora del teatro, che ha permesso di trasformare il termine di performance e rappresentazione teatrale in “spettacolo”, come evento artistico che va oltre la semplice “esecuzione”. Gli unici momenti identificabili come punti di articolazione del teatro vivo e abitato di sabato sera sono stati: l’arrivo del regista, l’arresto della pellicola con il blocco performativo dei due topi protagonisti, la santa trappola assassina e l’estrazione dei resti sanguinanti dei topi classici raggirati dai mangiatori di formaggio. Per il resto dico che ha vinto soprattutto l’unicità ed irrepetibilità della performance e l’intervento corporeo che sono il reale lasciapassare per l’immortalità dell’arte teatrale moderna che non vuole essere di prosa. Insomma ho visto qualcosa che non è finito, che non ha fissato alcun copione o testo. Ho assistito ad un salto evolutivo del teatro dei miei tempi e ne sono stato sbalordito – scusate – testimone. Son contento di averlo vissuto in maniera esclusiva. I miei complimenti vanno ai performer di Parkour, unici per aver sciolto certi momenti violenti di verbigerazione acuta. PS: Giorgio Fabris negli anni 70 lo faceva su concetti o personaggi moderni e meno anacronistici: Rrose Sélavy… scusate Marcel Duchamp. Poi un’altra cosa: il teatro gode già di unicità nei confronti della televisione e del cinema, quindi Registi stiamo sempre attenti a quello sforzato superamento della semplice rappresentazione obsoleta della realtà… ehm… che non si rischi di donare allo spettatore un immagine di teatro ambiguo. Piuttosto non chiamatelo spettacolo, ma performance. Che non vuol dire prova o tentativo, mi raccomando. FLUXUS. Ubi fluxus ibi motus.